La piel fría

 
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Comentado por Oscar Moreno
Acción Politeia

La vera guerra è iniziata, la guerra dei vaccini

 
Inoculación de pus de vaca en el Hospital de Niños Pobres de Barcelona, hacia 1890
 

L’epidemia di Covid ci è stata raccontata in chiave bellica, ma la sfida all’ultimo sangue è appena partita e riguarda i 109 vaccini in sperimentazione. Sullo sfondo le tensioni geopolitiche e gli appetiti di Big Pharma, con la fondazione di Bill Gates a farla da padrone sui brevetti.
Da quando Covid19 è piombato sulle nostre vite, abbiamo usato a piene mani la metafora della guerra come riferimento simbolico per tentare di spiegare la multiforme sfida cui siamo stati sottoposti nel gestire l’emergenza del virus che ha sconquassato il mondo. Abbiamo ricevuto bollettini quotidiani da lasciare senza respiro che riportavano la conta dei morti, come persi in battaglia. Siamo stati serrati dentro le nostre case per evitare gli attacchi del nemico invisibile. Le corsie degli ospedali sono state rappresentate come trincee, fronti di guerra popolati di guerrieri o di eroi che l’hanno spuntata contro il virus. Susan Sontag, già ai tempi dell’HIV/Aids, era entrata nelle pieghe dei meccanismi per cui si fa ricorso al racconto in chiave bellica di una crisi sanitaria: “La guerra è pura emergenza, in cui nessun sacrificio sarà considerato eccessivo”. 

Se la narrazione guerriera serve dunque a smorzare le contraddizioni stratificate nella società globale ben prima di Covid19, non ci sono dubbi che attorno al nuovo coronavirus si stia apparecchiando uno scontro vero, che è tangenziale alla capacità sanitaria di contenere il contagio. La guerra è di natura commerciale, ruota intorno alla febbrile ricerca per scoprire il vaccino contro SARS-CoV-2. E va combattuta con un nemico potente e senza scrupoli, l’industria farmaceutica. Si tratta di dirimere una questione decisiva per il futuro: se i prodotti che scaturiranno dalla frenetica corsa al vaccino saranno blindati dalle logiche privatistiche del monopolio brevettuale (previsto dalle regole del commercio internazionale), o se saranno invece trattati come beni comuni accessibili a tutti, considerata la finalità per cui impazza oggi la ricerca e il sostanzioso finanziamento pubblico con cui si impegnano i leader del mondo guidati dall’Unione eruropea (ad oggi, 8 miliardi di dollari). 

Quando un vaccino ottiene l’autorizzazione dalle agenzie del farmaco, i profitti possono essere stellari. Abbiamo vagamente idea di che cosa significhi questo, nel caso di un vaccino sviluppato per fermare la pandemia che mette sotto scacco il pianeta, e per la quale non esistono rimedi? Covid19 ha sfiancato quasi tutti i settori dell’economia, ma il settore farmaceutico è in totale fibrillazione e potrebbe trarre lauti benefici dalla pandemia: “Le aziende farmaceutiche puntano a Covid19 come all’opportunità di business che capita una volta nella vita”, ha commentato di recente Gerald Posner, autore di Pharma: Greed, Lies and the Poisoning of America (Industria del farmaco: avidità, bugie, e l’avvelenamento dell’America, ndr). 

Il mondo ha bisogno di prodotti diagnostici e preventivi, non si discute. Governi, case farmaceutiche e laboratori di ricerca stanno mettendo in campo uno sforzo imponente, a un ritmo mai visto prima nella storia della ricerca medica: allo stato attuale si registrano 295 trattamenti e 109 vaccini in sperimentazione. Non deve pertanto sorprendere la corsa agli annunci sulla stampa internazionale. Una battaglia sul filo di una comunicazione non sempre suffragata a dovere dalla revisione scientifica. E talora intrisa dei toni della propaganda, che serve ai rialzi da capogiro del listino finanziario, più che a segnalare i successi nella ricerca. In questo modo le varie biotech e aziende farmaceutiche hanno l’agio di collocare le nuove azioni a prezzi maggiorati.

Mentre prosegue la sperimentazione con un processo di accelerazione che rischia di cambiare per sempre le procedure consolidate per gli studi clinici. Infatti la ricerca scientifica si incrocia anche con la battaglia geopolitica fra Stati Uniti e Cina, particolarmente infuocata a causa della pandemia. Il 21 maggio il senatore americano Rick Scott ha depositato un disegno di legge per la protezione della ricerca nazionale sul vaccino anti-Covid19 da atti di furto o di sabotaggio che possano provenire dalla Cina. L’iniziativa legislativa fa seguito a ripetute segnalazioni da parte di agenzie della sicurezza nazionale inglesi e americane (tra cui FBI e la Cyber-security and Infrastructure Security Agency, CISA) in merito a specifiche azioni di cyber-spionaggio e a tentativi di hacker cinesi che investono industrie farmaceutiche, enti di ricerca scientifica, università, agenzie sanitarie e governi locali. Come in un film…

Sono otto i progetti per i vaccini già in fase clinica, la metà di questi è cinese e uno europeo: quello dell’italiana IRBM in collaborazione con l’Università di Oxford, che è già in fase di sperimentazione umana. Ma lo scenario in cui ci si muove è quello di un oligopolio. L’industria dei vaccini è in buona sostanza una concentrazione di 4 aziende – GlaxoSmithKline, Merck, Pfizer e Sanofi – che controllano l’85% del mercato e un giro d’affari di oltre 35 miliardi di dollari. Il mercato mondiale dei vaccini è cresciuto di sei volte negli ultimi venti anni e, in questo scenario di concentrazione, va messa in conto la potente élite della filantropia globale guidata da Bill Gates.

Con la sua fondazione, proprio due decenni fa, Gates ha riacceso i motori della (allora) stanca produzione di vaccini attraverso una multiforme gamma di iniziative pubblico-private – prima fra tutte la Global Alliance for Vaccine Immunization (GAVI), oggi molto potente – per colmare i cosiddetti pharmaceutical gaps ed escogitare in accordo con l’industria privata soluzioni di mercato – sia in termini di incentivi che di finanziamento – che potessero espandere i programmi di vaccinazione dei bambini, soprattutto nei paesi a basso e medio reddito. Il rilancio dei programmi di immunizzazione e della produzione di vaccini architettato dalla fondazione Gates ha incrementato la copertura vaccinale – oggi purtroppo messa a dura prova da Covid19 – ma tutto questo è avvenuto in una logica di dipendenza e rafforzamento di Big Pharma, così che il prezzo dei vaccini non è esattamente alla portata dei paesi del Sud globale – Medici Senza Frontiere (MSF) ci ricordava nel 2014 che la copertura vaccinale pediatrica completa costava 68 volte di più rispetto al 2001.  

Bill Gates comunque, possiamo dirlo senza tema di essere smentite, resta il deus ex-machina delle strategie vaccinali nel mondo. Avendo profetato l’arrivo di un nuovo virus potenzialmente pandemico nel 2015, il tycoon filantropo si è organizzato in tempo e ha fatto significativi investimenti in una rete di biotech che ora afferisce alla Fondazione Gates. Fra le aziende di punta rientra la tedesca CureVac, cui Trump propose a marzo l’acquisto in esclusiva del brevetto del vaccino in fase di sviluppo, a uso e consumo della sola popolazione americana.

La Fondazione Gates inoltre ha investito miliardi di dollari in sette dei più promettenti progetti di ricerca che riguardano SARS-CoV-2, e nella costruzione di impianti di eventuale produzione di questi candidati, avvalendosi della competenza acquisita nel campo delle malattie infettive, e consapevole che da solo può mobilitare denaro nell’ordine di grandezza di più governi, ma molto più celermente. Bill è appassionato di vaccini, li considera la soluzione migliore per la gran parte dei problemi sanitari del pianeta. E fa capo alla Fondazione Gates anche la giovane, ma già assai influente, Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI) creata nel 2017, dopo l’epidemia di Ebola, per accelerare la scoperta di vaccini in caso di epidemie.

CEPI è centrale nella definizione degli scenari su Covid19, compare in prima fila in tutte le recenti iniziative della comunità internazionale contro la pandemia. Il lancio di Access to Covid19 Tools (ACT) Accelerator, una collaborazione globale per lo sviluppo, la produzione e l’accesso equo ai nuovi vaccini, farmaci, diagnostici per Covid19 annovera la Fondazione Gates come protagonista indiscussa insieme alla Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Lo stesso dicasi nel caso della “chiamata all’azione” di Oms e Unione europea per la raccolta di fondi destinati alla ricerca medica contro Covid19: in prima linea, accanto ai governi, le più importanti alleanze pubblico private nate per iniziativa (e fondi) di Gates – CEPI, GAVI, il Fondo Globale contro Aids, tubercolosi e malaria, UNITAID, FIND – e, naturalmente, l’industria farmaceutica.

Questo crescendo di mobilitazione ha ispirato l’Unione europea a cimentarsi anche sul testo di una risoluzione per la sessione online della Assemblea mondiale della sanità, dedicata esclusivamente a Covid19.  Approvata con suono di fanfare il 20 maggio, la risoluzione si limita a enunciare la necessità della cooperazione globale per l’accesso equo ai prodotti che verranno scoperti contro il Covid19. Il testo, concordato dopo due settimane di tortuosi negoziati, evita tuttavia di fare riferimento esplicito ai brevetti farmaceutici e al prezzo dei farmaci. Evita di suggerire ai governi il ricorso alle flessibilità dell’accordo TRIPS sulla proprietà intellettuale, come percorso positivo e legittimo di deroga al brevetto. Per rompere il monopolio e accelerare produzione e accesso ai vaccini, in cambio del pagamento di royalties alla impresa.

Si tratta di una regressione semantica degna di nota, rispetto al linguaggio consuetudinario delle numerose risoluzioni adottate dall’Oms sul tema dell’accesso ai farmaci; una regressione preoccupante, se rapportiamo la debolezza dell’impegno all’urgenza della pandemia del nuovo coronavirus. Eppure, l’Europa sa bene quanto possano agire da barriera i brevetti. In un suo rapporto del 2009, la Commissione europea aveva spiegato che l’80% delle 40.000 richieste di brevetti prese in esame riguardava l’estensione del brevetto di prodotti già in commercio per usi secondari o per forme diverse dello stesso prodotto (nel caso di un farmaco, ad esempio, la versione in sciroppo di una precedente pastiglia), con una perdita di circa 3 miliardi di euro l’anno solo nel settore farmaceutico, dovuta alla ritardata disponibilità sul mercato dei più economici farmaci equivalenti.

I governi intanto, alle prese con i contagi, i lockdown e le roboanti crisi economiche – l’UNDP ha previsto il primo netto declino dello sviluppo umano dal 1990, a causa della pandemia – non restano del tutto immobili di fronte alla mala parata dei monopoli brevettuali ventennali sui vaccini e sugli altri dispositivi medici necessari a gestire il virus.

Dalla fine di marzo il governo del Costarica propone la creazione di un archivio globale (patent pool) per condividere al massimo la conoscenza scientifica sotto l’egida dell’Oms e “includere i diritti esistenti e futuri dei brevetti per invenzioni e disegni, dati dei test e dei processi regolatori, know-how e copyrights per la produzione di testi diagnostici, dispositivi medicali, farmaci e vaccini”, così da velocizzare la scoperta dei rimedi per contrastare Covid19. L’accesso a questa conoscenza dovrebbe essere gratuito e fornito sulla base dilicenze ragionevoli ed economicamente compatibili, per ogni paese membro”. L’idea è sostenuta dal Cile e dalla stessa Oms. Il direttore di CEPI, Richard Wilder, ha già bollato la proposta del Costarica come “inefficace e non necessaria”. Sarà un caso che, prima di occuparsi di vaccini, Wilder era a capo dell’ufficio sulla proprietà intellettuale a Microsoft? La fortuna di Bill Gates poggia sui brevetti.

Mentre il presidente brasiliano Bolsonaro prosegue pervicacemente nella sua fase negazionista a base di idroxiclorochina, nel Parlamento a Brasilia sono stati depositati disegni di legge per chiedere l’applicazione della licenza obbligatoria per uso governativo (un dispositivo per impedire l’abuso di posizione dominante) sui dispositivi medici e prodotti contro il Covid19. Dal canto loro, Ecuador e Canada si sono attivati per semplificare le procedure  di ricorso alle licenze obbligatorie. Una iniziativa simile è giunta in porto a febbraio in Australia con un emendamento alla norma nazionale sui brevetti e a marzo è toccato alla Germania, con la autorizzazione di usi speciali di licenze obbligatorie associate alla prevenzione e al controllo di malattie infettive negli umani. La nuova norma tedesca non richiede la fattispecie dell’ abuso di monopolio, né permette al detentore del brevetto di bloccare la licenza obbligatoria del governo, come previsto anche nella riforma australiana. Eppur si muove. Ma, sotto pressione, l’irrefrenabile industria farmaceutica è in piena campagna di lobby per ricordare che senza diritti di proprietà intellettuale non può esistere innovazione. 

Insomma, che ne sarà della corsa al vaccino contro Covid19, alla fine?  Forse, come riporta un recente articolo del Guardian, tutta questa frenesia nella ricerca pandemica non porterà lontano. Se ne stanno facendo una ragione, pare, gli esperti del governo inglese, nel momento in cui l’Università di Oxford procede con il reclutamento di 10.000 volontari per la fase due della ricerca, dopo la fase pre-clinica sui macachi. Questa nuova prudenza ha qualche fondamento di ragionevolezza.

Prima di tutto, nonostante la conoscenza acquisita sulla famiglia dei coronavirus da parte della comunità scientifica, c’è ancora molto da scoprire a proposito di SARS-CoV-2. Va detto poi che la famiglia dei coronavirus sviluppa un’immunità che recede rapidamente, come sappiamo anche dalla cinetica dell’influenza. Infine, al netto degli annunci, la ricerca sui vaccini comporta livelli di complessità superiori a quella sui farmaci: un vaccino deve proteggere dalla malattia e prevenirne il contagio, e deve farlo in massima sicurezza perché è somministrato sui grandi numeri delle persone sane, al contrario delle terapie, utilizzate solo con le persone malate. Non esiste possibilità di sconti sugli eventuali effetti collaterali in nome della primogenitura sul mercato. 

Che ne sarà dei vaccini anti-Covid19, dunque? Coltivo la speranza che SARS-COV-2 scompaia prima che Big Pharma possa appropriarsene e specularci sopra, imponendo costi inaccessibili ai vaccini, magari adducendo a scusa il valore che rivestono per la salute della popolazione. Sarebbe l’ultima beffa di questo nuovo sorprendente coronavirus. Del resto, non si è comportato così anche il micro-organismo della SARS nel 2004? 


¿Ley de cambio climático y transición energética?


El comunicado de prensa de ONU Medio Ambiente, de 13 marzo 2019, dice que incluso si se cumple el Acuerdo de París, se espera que el permafrost del Ártico se reduzca 45% en comparación con su estado actual. Y este deshielo del permafrost despertaría al «gigante dormido» de los gases de efecto invernadero, lo que podría descarrilar los esfuerzos climáticos globales. Se espera con ello que el aumento del deshielo contribuya significativamente a las emisiones de dióxido de carbono y metano, y el calentamiento resultante a su vez conducirá a un deshielo aun mayor, un efecto conocido como «retroalimentación positiva». (1) (2)

Pero a pesar de las advertencias de los científicos y de la ONU, las clases dirigentes —la española también— solo tratan ponerse a salvo fuera del mundo. Para ello construyen exclusivas urbanizaciones privadas, a modo de fortalezas, para ponerse a salvo de los efectos de la explosión de desigualdad. Saben que la fiesta se ha acabado, que hemos llegado a los límites del planeta, por ello han decido extraer (apropiarse) todo lo extraíble para ellas y sus hijos. Para llevar a cabo su propósito han concebido la desregulación y han desistido de toda solidaridad con los más débiles en nombre de la libertad. Y para disimular su egoísmo niegan el cambio climático (3) y enredan con la fantasía del capitalismo verde.

En este escenario, condicionado además por la aparición de la crisis sanitaria, económica y social ocasionada por el covid19, el Gobierno ha presentado en el Congreso de los Diputados su proyecto de ‘Ley de cambio climático y transición energética’. Un plan inservible para evitar la ‘catástrofe climática’ y que hace oídos sordos a las peticiones de los científicos y las recomendaciones de la ONU. El proyecto de ley del Gobierno vende la idea de que se están adoptando las medidas contra la emergencia climática que piden los científicos, cuando no es así. Para pesar de todos el proyecto de ley mantiene la cultura consumista existente con medidas verdes dentro lo políticamente posible pensadas para el bussiness as usual. Un dato a tener en cuenta: el 70% capital que movilizará la transición energética entre 2021 y 2030 será privado y solo el 30% será público, así lo indica el proyecto de ley en la Exposición de Motivos. Este proyecto no es más que un lavado verde de cara del sistema económico.

Inmersos como estamos en un «juego político que se caracteriza por la capacidad de “hacer ver y hacer creer” a los demás de otra manera», esto debe ser conocido por la ciudadanía porque como dice Greta Thumberg: «si las personas no son plenamente conscientes de lo que está sucediendo no podrán ejercer presión sobre los líderes. Y sin esa presión, los líderes políticos no harán nada». Y no hay que olvidar la advertencia que hace ONU Medio Ambiente: si solo confiamos en los compromisos climáticos actuales del Acuerdo de París es posible que las temperaturas aumenten 3,2 °C este siglo. Incremento que trae probabilidad de guerras, incluso nucleares y a la que pocas veces se hace referencia. Y no digamos si ni siquiera llegamos a cumplir el Acuerdo de París.

Analizamos ahora —tras la introducción— algunas deficiencias e insuficiencias del proyecto de ley de cambio climático presentado por el gobierno al Congreso de los Diputados, sin que dicha exposición agote todo el análisis posible de las mismas.

En el catálogo de deficiencias e insuficiencias encontradas se puede destacar el título del proyecto de ley: «Ley de cambio climático y transición energética». La rotulación que se ha dado al proyecto no es una mera cuestión terminológica, sino que ésta —en cuanto carta de presentación de la futura ley— recoge de manera sintética el espíritu de la misma y los principios que la alumbran. Y es que la elección semántica no es neutral como veremos. Ésta en concreto pone de manifiesto la elección de una opción: la continuidad del bussiness as usual desde el «crecimiento verde». 
 
La primera elección que hace el Gobierno en el título usado es la de «cambio climático», cuando tenía otras alternativas más ajustadas a la realidad: emergencia climática o crisis climática. La rotulación de la ley usando la descripción científica del evento, aséptica, no transmite la gravedad y la cercanía al umbral de irreversibilidad en el que nos encontramos. No estamos ya ante un acontecimiento para el que disponemos de tiempo suficiente —de aquí a final de este siglo— para mitigar sus efectos. La inacción de los gobiernos ha acelerado la velocidad de los cambios. Hoy vivimos una «emergencia climática» cuya mitigación exige una reducción drástica de las emisiones en esta década, para evitar que crucemos el umbral que conduce a un cambio apocalíptico, pues el tiempo de reacción de que disponemos es de apenas una década, según el consenso científico. Cada semántica crea, así, un marco cognitivo diferente en lo referido a la urgencia en la adopción de medidas de mitigación y adaptación a la crisis climática. Así pues la expresión que debería haber usado el gobierno en lugar de ‘cambio climático’ es: ‘emergencia climática’.

La segunda expresión que el ejecutivo elige para el título es la de «transición energética». No es incorrecta pero refleja una realidad parcial, porque también hace falta emprender otros cambios. Es una solución de ‘final de tubería’ que no va a la raíz del problema: el crecimiento económico ilimitado, sino que busca corregir su efecto y mantener el statu quo. Nos anuncia lo que el gobierno va a hacer: la sustitución de las energías fósiles por energías renovables dentro del marco económico de crecimiento, y también de lo que no va hacer: la reducción del consumo de energía, materiales y viajes que suponga un drástico cambio de viajes lujosos y consumo despilfarrador a un consumo y viajes básicos, necesarios, sustentables y satisfactorios, sin la cual no es posible cumplir los objetivos climáticos. El gobierno no va llevar a cabo la ‘transición ecológica’ aunque continuamente abuse de dicha expresión con su uso indebido.

En lo que se refiere al modelo de transición energética recogido en el proyecto, los análisis efectuados por el Grupo de Energía Economía y Dinámica de Sistemas de la Universidad de Valladolid en este campo, evidencian que la fuerte re-materialización que requerirá la transición hacia las energías renovables en el sector eléctrico cuestiona la consistencia y solidez del ‘crecimiento verde’, que no cuestionan ni el proyecto de ley ni la mayor parte de fuerzas políticas del Congreso de los Diputados.
 
En este «juego político» de «hacer ver y hacer creer», este somero análisis del título del proyecto de ley sugiere que el texto del proyecto de ley no va a ir en la dirección pedida por la comunidad científica de una reducción drástica de emisiones. Todavía, sin embargo, es pronto para establecer una conclusión definitiva.

Continuando con el análisis de otros aspectos del proyecto de ley, debe destacarse que éste no cuestiona el modelo económico de crecimiento ilimitado, ni el tipo de industrias sobre las que se asienta la economía española: turismo de masas, construcción, industria o agricultura y ganadería industrial. Ni tampoco fija un «catálogo de actividades económicas deseables y no deseables» en un escenario de emergencia climática, lo que dificulta la articulación de una política que suponga un giro real y drástico de las emisiones de gases de efecto invernadero. 
 
El mantenimiento del dogma del crecimiento económico se aprecia en la Exposición de Motivos del proyecto de ley con la referencia al «crecimiento verde y sostenible». Un oxímoron. Y en el articulado al definir la descarbonización de la economía como la consecución de un modelo socioeconómico sin emisiones de gases de efecto invernadero, pero sin hacer referencia en la definición al principio de equidad intergeneracional como marco socioeconómico inclusivo de las necesidades y la prosperidad de las generaciones futuras u otro principio que establezca esta salvaguarda. El planeta y sus recursos no pertenecen a una generación, son un legado que pertenece a todas las generaciones, que todas tienen el deber de cuidar y transmitir.

Un segundo aspecto del proyecto de ley que merece ser analizado es el objetivo nacional de reducción de emisiones de gases de efecto invernadero que se establece. La reducción que se contempla en el texto es del 20% respecto a 1990 en 2030 y del 90% en 2050, pero inferior al objetivo vinculante que impone la normativa comunitaria a España del 26,5%. Ni siquiera el objetivo de reducción de emisiones del 23% previsto en el Plan Nacional Integrado de Energía y Clima —que se incorporará a la futura ley durante la tramitación parlamentaria— cumple con dicho objetivo, muy alejado de la reducción drástica que reclaman los científicos hay que llevar a cabo.

Dicha cifra y el incremento de la reducción de emisiones hasta el 55% que ha anunciado la UE, no parecen estar escogidas al azar. La cifra del 23% es el porcentaje de emisiones con el que la agricultura, la silvicultura y otros usos de la tierra contribuyen al calentamiento global. Y la del 55% corresponde al volumen de emisiones con el que los cuatro principales emisores —China, EE.UU., UE28 e India— han contribuido a las emisiones totales de gases de efecto invernadero durante la última década. Esta es la ambición que tan pomposamente dicen tener España y la Unión Europea en la lucha contra la emergencia climática. Hechos son amores.

Los gobiernos no pueden darse el lujo de esperar. Y las personas y las familias tampoco, pues aún estamos lejos de alcanzar la reducción del 7,6% entre 2020-2030 que la ONU establece como necesaria para poder evitar que el incremento de temperatura global supere los 1,5ºC. Si la reducción efectiva de emisiones continúa retrasándose, dicha postergación hará necesario un incremento del porcentaje de reducción anual. Y si la reducción de las mismas comenzara en 2025, la propia ONU cuantifica el porcentaje de la disminución necesaria en el 15,5% cada año, lo que haría que el objetivo de 1,5 °C fuera casi imposible. 
 
El porcentaje de reducción recogido en el proyecto de ley personifica el abandono por el gobierno del compromiso de limitar el incremento de temperatura de la tierra a 1,5º C y sitúa la contribución de España a la reducción de la temperatura global en el rango objetivos insuficientes que denuncia la ONU que nos abocan a un incremento mínimo del 3,2ºC.

Esta decisión es poco comprensible si se tiene cuenta que España será el país más afectado de la Unión Europea (4), circunstancia que debería colocarnos a la cabeza de los países con mayor ambición climática, a fin de disminuir efectos adversos del cambio climático que estamos y soportando y vamos a sufrir cada vez más: calor, sequía, ruptura de los ciclos agrarios, inundaciones, huracanes; y poder así mitigar las dificultades de adaptación que tendremos.

Por último, se debe destacar la ausencia en el proyecto de ley del concepto de flujo neto de carbono incorporado de los países en desarrollo a los países desarrollados. Dicha ausencia causa un efecto de ‘espejismo de reducción’, pues cuando se agregan al cómputo europeo las importaciones de carbono incorporado, las emisiones per cápita de la Unión Europea —y en consecuencia las de España— son más elevadas que las de China, incluso aún reduciendo las emisiones nacionales (5). Igualmente se debe subrayar la omisión en el proyecto de ley de alguna previsión sobre la esperada y significativa contribución de las emisiones de dióxido de carbono y metano que el aumento del deshielo ocasionará, como avisa la ONU(6), el efecto conocido como de «retroalimentación positiva».

Necesitamos, por tanto, cerrar la brecha entre lo que estamos haciendo y lo que debemos hacer para prevenir los efectos más graves del cambio climático, pues como dicen las Naciones Unidas: «las emisiones de gases de efecto invernadero [siguen] en aumento a pesar de las advertencias de los científicos y los compromisos políticos».

Nada puede ser celebrado entonces con este proyecto de ley, a pesar de la bienvenida de algunas fuerzas políticas. Muy al contrario, este proyecto de ley es intensamente desesperanzador: por los principios que contiene y los objetivos insuficientes que establece. Y porque con este proyecto de ley el coste de los impactos climáticos se transfiere a la ciudadanía y a las comunidades vulnerables, en vez de ser asumido por los actores económicos. 

 
Debe surgir, por tanto, un fuerte liderazgo político —hasta ahora inexistente— que defienda la petición de la comunidad científica y de los jóvenes de una reducción drástica de las emisiones de gases de efecto invernadero, una disminución del orden del 65% para 2030 y emisiones netas nulas para 2040(7), en línea con las demandas de organizaciones ecologistas como Green Peace (8).

El análisis precedente confirma las conclusiones provisionales expuestas al inicio y la inutilidad del proyecto de ley del gobierno para contribuir al esfuerzo común de la humanidad de limitar el incremento de temperatura a 1,5ºC. Tomando como base los compromisos actuales, las emisiones actuales están en camino de alcanzar 56 Gt CO2e para 2030: más del doble de lo que deberían ser, lo que supondría un incremento de temperatura a final de siglo de 3,9ºC. Retrasar, por tanto, la acción climática agravará el problema. Y postergar esas medidas además incrementará el coste de construir defensas costeras, de proteger la seguridad alimentaria, de adaptar la infraestructura y acrecentará la dificultad para reducirlas, haciéndolas más desafiantes.

El desafío es reducir las emisiones a 25 Gt CO2e. Eso significa que los compromisos, políticas y acciones que necesitamos deben dirigirse a la reducción de las emisiones un 7,6% cada año entre 2020 y 2030, como se ha señalado más arriba. Sólo así se podrá limitar el calentamiento global a 1,5 °C.
No podemos volver al modelo productivo y de consumo que nos ha traído esta pandemia y la emergencia climática, pues proseguiremos entonces profundizando en la causa común que las ocasiona. Las pandemias y la emergencia climática nos están avisando que la economía no puede funcionar por encima de los límites planetarios. Pero todavía tenemos la oportunidad de frenar el calentamiento global. Para ello y para satisfacer las demandas de protección de los españoles debemos de variar el rumbo, para lo cual el viraje habrá de materializarse en un nuevo reparto de los recursos, de los cuidados y del poder, que ofrezca algo más que «ladrillo, industria o subsidios», cuando en los próximos meses se concreten las ayudas de la Unión Europea. ¡Hagámoslo!

Francisco Soler Luque 
Esteban de Manuel Jerez


Notas:
(2) Pero este evento hará baldíos los esfuerzos si los planes de acción climática no contemplan esta eventualidad, ni planes de contingencia adicionales y solo tienen en cuenta las emisiones antropogénicas.
(3) Latour, B, Donde aterrizar. Como orientarse en política, Ed. Taurus, Barcelona, 2019.
(4) El objetivo recogido en el proyecto de ley es suicida para los españoles. Las razones son obvias: el informe especial del IPCC sobre la tierra, de agosto de 2019, dice que la temperatura sobre la tierra ya ha aumentado 1,53º C por encima de las temperaturas preindustriales; el área del Mediterráneo sufrirá un incremento de temperatura adicional del 25% y en España el incremento adicional estimado es de 0,5ºC. España es el país de la Unión Europea que va a resultar más afectado por los efectos de la crisis climática y a pesar de ello la ambición climática de España es nula.
(5) Informe sobre la disparidad de emisiones de 2019 elaborado por la ONU. El Informe de brecha de emisiones mide y proyecta tres líneas de tendencia clave:
  1. La cantidad de emisiones de gases de efecto invernadero cada año hasta 2030.
  2. Los compromisos que los países están haciendo para reducir sus emisiones y el impacto que estos compromisos pueden tener en la reducción general de emisiones.
  3. El ritmo al que deben reducirse las emisiones para alcanzar una emisión baja que limitaría el aumento de la temperatura a 1.5 o C , de manera asequible.


    (6)https://www.unenvironment.org/es/noticias-y-reportajes/comunicado-de-prensa/aumento-de-temperatura-de-3oc-5oc-sera-inevitable-en-el 
     (7) Sin que se deban olvidar dos datos: primero, las emisiones de gases de efecto invernadero en España se incrementaron, en 2019, un 8,8% respecto a 1990; segundo, con los compromisos de reducción remitidos a la ONU el incremento de temperatura sería de 3,9º C, como ya se ha señalado más arriba, escenario que haría que gran parte del planeta quedara inhabitable.(8)https://es.greenpeace.org/es/sala-de-prensa/comunicados/la-declaracion-de-emergencia-climatica-no-es-suficiente-la-ue-debe-tomar-medidas-urgentes-para-reducir-las-emisiones/










    Osadía, templanza y Constitución frente a la crisis

     
    Ejemplares de la Constitución española de 1978. REUTERS

    Aún no hemos superado la crisis sanitaria del Covid-19 y  es mucho lo que tenemos que reflexionar y mucho lo que nos queda por avanzar y por inventar si queremos salir de esta situación sin abandonar a  una parte de la sociedad.

    Esta experiencia de crisis sanitaria mundial  nos ha sacado a los balcones a aplaudir a quienes han dado su energía y su salud para salvarnos. Pero no solamente las profesiones sanitarias y de los cuidados se han hecho más visibles que nunca y han adquirido un vital protagonismo. También otro elemento ha adquirido un gran protagonismo: El Estado (la organización territorial y política que abarca a toda España), y especialmente el gobierno central.

    Desde la derecha y la izquierda, desde incluso la falta de ideología política clara, se ha esperado y exigido que el Gobierno central, nos guiara y sacara de la crisis sanitaria. También en teoría se espera y exige  que nos saque, junto con las Comunidades Autónomas,  entidades Locales, y la organización supraestatal de la Comunicad Europea, de la crisis económica. La iniciativa individual de cada persona adulta es necesaria pero insuficiente, y las iniciativas ciudadanas colectivas complementan e innovan, y son un ejemplo a seguir en muchas ocasiones, pero no tienen capacidad para sustituir de manera general a las intervenciones públicas. Se necesita una actuación ejecutiva orquestada, armónica y colaborativa. Pero a la vez que queremos que se lleven a cabo esas funciones y criticamos la actuación del Gobierno porque queremos algo mejor, nos dan y nos damos respecto de la situación económica mensajes de conformismo. Nos repetimos como un mantra que ante la reducción del crecimiento económico no existen más opciones que aceptar que muchas más personas pasen hambre o mueran de enfermedades mal cuidadas o vivan en la calle o en la precariedad, o en condiciones indignas; o que nuestros ingresos se reduzcan de una manera drástica. Como si antes o después la capacidad del Estado para protegernos fuera a quebrar y no existiera más posibilidad  que aguantar que la mayoría de los niños y niñas pobres, y los de la clase media y baja vayan a tener una vida peor que la que han tenido hasta ahora, debido a la recesión económica. Como si no existiera otra opción más que reducir la inversión en la persecución de la violencia de género y en otras causas sociales de primera magnitud. Pero no es eso lo que nos dice la Constitución ni la economía.

    La Constitución española no consagra un modelo económico pero sí un orden económico que debe cumplirse en todo el Estado  y que tiene como objetivo   "garantizar la convivencia democrática, dentro de la Constitución y de las leyes conforme a un orden económico y social justo", promoviendo "el progreso de la cultura y de la economía para asegurar a todos una digna calidad de vida". Por eso España se define como Estado Social y Democrático de Derecho (art. 1.1) y se establece la obligación  a los poderes públicos de  promover las condiciones necesarias para que la libertad y la igualdad sean reales y efectivas, y por tanto de  remover los obstáculos que la impidan, así como de facilitar la participación ciudadana en la vida política, social y económica (art. 9.2). En definitiva, nuestra norma suprema   consagra la obligación para  todos los poderes públicos del Estado, empezando por el Gobierno central, de adoptar las medidas y reformas que hagan factible en toda España  la igualdad y la consecución de un orden económico y social justo. Y esa obligación es especialmente importante en estos momentos.

    Nuestra Constitución establece que toda la riqueza del país está al servicio del interés general (artículo 128). No solo permite las nacionalizaciones de empresas emblemáticas que haya que salvar y poner a disposición de ese bien común, también lo exige siempre y cuando sirva para acercarnos a la igualdad y a un orden económico justo. No para mantener las diferencias de riquezas. No para salvar la riqueza de dueños y dueñas de bancos y de empresas, sino para salvar la capacidad económica de la ciudadanía, la capacidad de respuesta de los servicios públicos, y promover la igualdad.   Y también permite y exige que las grandes fortunas tengan que tributar de una forma mucho más significativa que lo que sucede en la actualidad, siempre y cuando esa entrada de dinero en las arcas públicas se use para el bien común. Algo que algunas personas supermillonarias han entendido ya,  mostrado que están dispuestos a aportar más por el bien común del que también dependen, como ha evidenciado esta crisis sanitaria.

    No puede haber vencedores ni vencidos si queremos convivir y progresar, y menos en una crisis de esta magnitud que ha empezado por mostrarnos nuestra  codependencia a la hora de mantener la salud y la libertad. Se trata de aplicar una política de cuidado de toda la ciudadanía, con independencia del signo político de cada persona, porque todos y todas necesitamos ser cuidados y cuidar, dejando de lado cualquier odio y conectando con lo que tenemos en común: nuestra humanidad.

    La convivencia pacífica dentro de un Estado va unida al bienestar de la población, a la igualdad y a la justicia. En mi opinión, es el momento de aplicar nuestra Constitución con osadía y templanza para afrontar la tarea de armonizar los derechos individuales con las necesidades económicas generales. Como seres humanos estamos entrelazados y no es momento para la resignación.



    Abogada especialista en violencia de género
    https://blogs.publico.es/dominiopublico/33045/osadia-templanza-y-constitucion-frente-a-la-crisis/
    Socia de FonRedess 
     
     


     

    “Crisis paralelas”. El valor de la experiencia histórica


    La guerra se ha ganado gracias a los esfuerzos de todo nuestro pueblo, que, con muy escasas excepciones, puso a la nación muy por delante de sus intereses privados y sectoriales... ¿Por qué vamos a pensar que podemos lograr nuestros objetivos de paz -alimentos, ropa, vivienda, educación, ocio, seguridad social y pleno empleo- dando prioridad a los intereses privados?”
    Clement Attlee, líder del Partido Laborista (1945).

    Hace poco hemos celebrado el 75 aniversario de la victoria contra el fascismo y nazismo en Europa. Aunque las celebraciones hayan pasado desapercibidas, los hechos acaecidos entre la Gran Guerra y la crisis de la post-II Guerra Mundial nos permiten realizar algunos paralelismos que son interesantes para analizar el presente. Uno de los valores de la Historia es realizar preguntas al pasado con las preocupaciones del presente y es la única fuente de experiencia que tenemos para no realizar saltos al vacío ante los problemas a los que nos enfrentamos como sociedad. Muchos estudios reflejaron los paralelismos entre la crisis de 2008 y el crack de 1929, así como sus consecuencias. Algo similar puede suceder con los acontecimientos derivados de la crisis del COVID19 y la coyuntura del periodo posterior a 1945, que permitió la aparición en Europa Occidental del <<pacto social de posguerra >>, centrado en el pleno empleo, la reducción de las desigualdades y la aparición del Estado del Bienestar.

    Es evidente que existen diferencias notables que evitan que caigamos en simplificaciones. El COVID19, aunque ha sido destructor a nivel económico y social a escala planetaria, no ha generado una crisis tan destructiva en el tejido productivo como la II Guerra Mundial. Tampoco existe el miedo al contagio revolucionario de la URSS, que al igual que la crisis del 2008 no ha traído aparejado el ascenso del fascismo como en los años 30, aunque si la subida electoral y social de la ultraderecha y de los movimientos nativistas en gran parte del mundo. Sin embargo, la experiencia histórica puede servir como referencia ante las grandes crisis que se están produciendo en nuestra era.

    Tras la Primera Guerra Mundial, la élite política y económica, pretendía una vuelta a la situación precedente, caracterizada por una desigualdad social extrema. Numerosos factores impedían esa vuelta al pasado. Lo primero fueron las crisis de las reparaciones de guerra, que afectaban especialmente a Alemania, en el contexto de las consecuencias del tratado de Versalles (un auténtico regalo para los nacionalistas germanos). No menos importante fueron los problemas de la “vuelta a la normalidad” tras la guerra (paro, inflación, deudas insostenibles, jóvenes incapacitados, etc.), además del clima revolucionario alentado por la victoria bolchevique en Rusia.

    La política de la era democrática de masas hizo envejecer a los partidos tradicionales, los cuáles no tuvieron las herramientas, ni la legitimidad moral, tras las grandes masacres de la guerra, para poder volver a imponer la “normalidad” previa a la guerra. A pesar de los grandes esfuerzos de economistas como Keynes (apoyados a medias por EEUU), para estabilizar la economía alemana, y tras superar el peligro revolucionario, todo el tinglado de las reparaciones, junto con la fiebre especulativa estadounidense durante los “locos años 20”, acabó por derrumbarse en 1929. El liberalismo sucumbió.

    Las consecuencias del crack del 29 son bien conocidas. Además de las puramente económicas, tuvo consecuencias sociales graves (altas tasas de paro, pobreza, etc.), instalando la inseguridad colectiva en aquellas sociedades, favoreciendo la llegada de dictaduras en Europa. Estos movimientos autoritarios tenían como referente el ascenso del movimiento nazi, que a su vez se reflejaba en el corporativismo del fascismo italiano. El auge nacionalista a escala internacional allanó el camino a la II Guerra Mundial.
    El crack del 29 provocó la ruina total del paradigma económico liberal decimonónico, que ya había sido gravemente cuestionado tras la Gran Guerra. La inmunidad de la URSS a la crisis impulsó a muchos países a ensayar formas de intervención y planificación económicas, totalmente contrarias a la ortodoxia liberal. El objetivo de estas políticas era frenar los excesos del capital privado, garantizando una cierta seguridad social que rebajara la tensión política y el riesgo revolucionario. Esto contribuyó a cuestionar la sacralidad del mercado y su ideología propietarista dominante. El aprendizaje de aquellas lecciones fue muy duro, después de años de guerras, miseria, revoluciones y matanzas.

    En 1945, el líder de la pertinaz resistencia británica, Winston Churchill, se presentaba a las elecciones, con la absoluta certeza de imponerse a su rival laborista, Clement Attlee. La victoria en la guerra, su incuestionable prestigio y el poder movilizador del partido conservador parecían suficientes para asegurar el gobierno. Sin embargo, Churchill planteaba una agenda de gobierno que parecía ignorar los años de guerra, muerte y sacrificio a los que se había sometido a la población.

    En aquellos momentos, el famoso informe Beveridge de 1942 ya era ampliamente conocido por parte de la población, al menos en sus parámetros esenciales. Aquel extenso y detallado informe planteaba un nuevo contrato social que debía establecerse entre la población y el Estado. El foco central de esa política, se centraba en la búsqueda de la seguridad y la protección pública, mediante un sistema amplio de transferencias sociales, cuyo pilar fundamental sería la creación de un sistema de salud pública (NHS). El Partido Laborista centró su esfuerzo en promover los beneficios del modelo social propuesto por Beveridge. Churchill por su parte, planteó otra vertiente ideológica y política en su campaña. Su propuesta se centraba en las aportaciones del economista Friedrich Von Hayek. En su “Camino a la servidumbre” de 1944, había sentado las bases de la alternativa teórica al keynesianismo, alertando del peligro de la socialdemocracia como antesala del comunismo. Esta profecía, según la experiencia histórica, nunca se ha cumplido.

    Churchill acabó perdiendo las elecciones por más de 13 puntos y el Estado del Bienestar echó a andar en el Reino Unido. La victoria laborista se había obtenido gracias a propuestas audaces, que habían comenzado décadas atrás, con la constitución del “presupuesto del pueblo” en 1909, y que había supuesto la creación de un impuesto sobre la renta en uno de los países más desiguales del mundo. En los siguientes treinta años que siguieron a la II Guerra Mundial, la desigualdad se redujo en el Reino Unido gracias, entre otras cosas, a un modelo radical de progresividad fiscal. Mientras desaparecía el imperio colonial británico, su economía crecía a un ritmo nunca visto.

    El final de la Segunda Guerra Mundial supuso la consolidación del consenso social de posguerra, impulsado por socialdemócratas o democristianos (son ilustrativos los casos francés y alemán). Ese consenso político, condicionado por la existencia de la Unión Soviética, suponía una política de concertación social, en la que los sindicatos y partidos obreristas aceptaban las reglas del juego del sistema capitalista. Ese acuerdo quedaba condicionado a un mayor equilibrio en términos de relaciones laborales y derechos sociales. Los grandes propietarios del capital se comprometían –a regañadientes- al fortalecimiento de un modelo fiscal fuertemente progresivo, exigiendo a cambio un incremento sostenido de la productividad por parte de los trabajadores.

    La progresividad fiscal serviría para la provisión de rentas y transferencias sociales en forma de sistemas de protección públicos, entre los que se encontraban la sanidad y la educación, además de otras formas de protección y cohesión social. Este consenso aglutinaba además a la clase media y las clases populares, beneficiándose de la extensión del Estado del Bienestar en igual proporción a su esfuerzo fiscal. Estos consensos políticos fueron la plasmación de las Constituciones sociales que se desarrollaron en esos países tras la Segunda Guerra Mundial. Estos acuerdos necesitaron de audacia y valentía política, pero también renuncias en los posicionamientos de partida por parte de los diferentes agentes negociadores, atendiendo a la correlación de fuerzas existente.
    Pese a los grandes avances que se desarrollaron en la reducción de la desigualdad y la mejora en las condiciones de vida occidentales, es evidente que el modelo social de posguerra tuvo importantes limitaciones. Quizá la más evidente es su planteamiento de crecimiento desarrollista en un momento en que la cuestión medioambiental era irrelevante. El crecimiento económico infinito es imposible en un mundo en el que los recursos naturales son finitos. Por otra parte, el modelo de relaciones Norte-Sur, también agravó la extracción económica en los espacios coloniales o dependientes, beneficiando los procesos de acumulación en las naciones industrializadas. Finalmente, e igual de importante, esas décadas fueron también una edad de oro de la desigualdad de género, con un auge del patriarcado, especialmente en el ámbito laboral.
    Las lecciones y aprendizajes colectivos que proporciona la experiencia histórica no son de aplicación mecánica en un contexto diferente y con importantes desafíos planetarios fruto de los modelos de crecimiento agresivos lesivos para el medioambiente. La actual Globalización y la revolución tecnológica limita la capacidad de actuación de los Estados, pero también ofrece posibilidades tecnológicas nunca vistas de cooperación interestatal y de federalismo regional. El futuro puede –y debería- sustentarse en el aprendizaje, aciertos, errores y limitaciones de la experiencia histórica. La evolución de la plasticidad institucional a lo largo de la historia es esencial para comprender cómo pueden imaginarse nuevos horizontes futuros.

    El mundo previo a la actual pandemia se caracteriza (-ba) por la extensión global de la desigualdad y un nivel de depredación medioambiental sin parangón. Los excesos de la Globalización sin instituciones capaces de regular elementos esenciales como la armonización fiscal, reforzaron la crisis institucional del Estado en sus formas y funciones tradicionales. La Gran Recesión que se inició en 2008, puso al descubierto muchos de aquellos excesos que generaron pobreza, malestar y unos niveles de desigualdad económica que no han hecho sino crecer desde entonces. Esta era del malestar se asemeja a la del periodo de entreguerras sobre todo por la creciente inseguridad en todos los ámbitos de la vida.

    Las soluciones que dieron las instituciones mundiales (FMI, BM, etc.), así como las europeas, no sólo no cumplieron su objetivo declarado (reducir la deuda y el déficit, mantener controlada la inflación y asegurar el crecimiento), sino que agravaron la recesión en muchos países, transformándola en depresión. Por el contrario, el ritmo de crecimiento ha sido decepcionante, la inflación se controló, y la reducción del déficit se ha realizado a costa de empobrecer las rentas del trabajo, reduciendo el gasto social del Estado y manteniendo las rebajas fiscales a los mayores patrimonios. Tampoco se puso coto a la especulación financiera (como si se hizo en la década de 1930) ni se ha avanzado en la cooperación fiscal entre los estados. Más bien al contrario, el dumping fiscal, que funciona como un mecanismo de demolición de la democracia y de competencia entre Estados, y la movilidad de capitales sin restricciones, han favorecido el ascenso de la extrema derecha al privar a los Estados de fondos necesarios para sus servicios sociales (entre otros factores). Los paralelismos con la crisis del 29 son evidentes. El neoliberalismo quedó desacreditado como solución de política económica, pero sus aportaciones siguen marcando las decisiones macroeconómicas, la diplomacia y las relaciones sociales.

    En el momento actual, la Humanidad, en mayor o menor grado, comienza a percibir la relevancia histórica de esta trágica coyuntura. Los dramáticos indicadores socio-económicos a escala mundial, nos remiten directamente al catastrófico periodo de los desastres engendrados por el liberalismo doctrinario. La tan recurrente vuelta a la normalidad forma parte de algo que parecería irrealizable, y que también merece una reflexión en perspectiva. No se va a volver a la “normalidad” sin más, ya que el mundo ha cambiado y se han evidenciado las fallas estructurales de nuestros modelos de crecimiento. El papel del Estado, su intervención activa en la economía, el papel social del Estado del Bienestar (en especial de la Sanidad), o las políticas de concertación entre agentes sociales, han quedado reforzados en muchos países, durante la actual crisis del COVID19, tal y como ocurrió tras la II Guerra Mundial, con las diferencias señaladas anteriormente.

    Por lo tanto, debemos extraer enseñanzas de la experiencia histórica, detectando sus carencias, pero también sus fortalezas y caminos inexplorados (como las valientes propuestas socialdemócratas de Olof Palme) en la búsqueda de una sociedad más justa, igualitaria y respetuosa con el medioambiente. Un nuevo consenso social es necesario, en el afán de observar las grandes oportunidades democráticas que aparecen en el horizonte, tras el inmenso sufrimiento que está causando la pandemia, tanto en Europa, como en otras regiones del mundo, menos privilegiadas económicamente.

    La vuelta a esa nueva “normalidad” podría fundamentarse en la audacia de las propuestas políticas y una defensa sin reservas de un nuevo modelo de Estado del Bienestar que centre su esfuerzo en la economía de los cuidados, la preservación de la vida y el respeto al medioambiente. Una idea global de comunidad inclusiva y solidaria, frente a las recetas individualistas basadas en la competencia radical en todos los ámbitos que han sucumbido al peso de los acontecimientos. O las sociedades logran poner sobre la mesa un proyecto colectivo e inclusivo de futuro, como en 1945, o los promotores de “ideas socio-económicas zombis”, en palabras de Paul Krugman, volverán a abocarnos a una nueva crisis estructural con consecuencias imprevisibles.

    La experiencia histórica avala ese camino, seamos valientes.





    Daniel Castillo Hidalgo, profesor de Historia e Instituciones Económicas de la Universidad de las Palmas de Gran Canaria.

    Pedro González de Molina Soler, profesor de Geografía e Historia, ex-Secretario de Educación de Podemos Canarias.







    Akhenatón

     
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    Comentado por Oscar Moreno
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    Portada del tercer fanzine «Morirse en Bilbao» por Kike Infame y sr Verde




    Comentado por Oscar Moreno
    Acción Politeia

    ¿Por qué se ha desbordado nuestro sistema de salud con esta pandemia?

    Una pandemia inesperada

    La actual pandemia de COVID-19 nos ha sorprendido. Pero, sobre todo, nos ha atemorizado. Durante el período de su expansión máxima ha producido un altísimo número de enfermos graves y fallecimientos en un corto período de tiempo. Ello, como todos sabemos, no sólo ha desbordado la capacidad del sistema sanitario, sino que ha generado el confinamiento de la población y la paralización de la vida económica en muchos países del mundo.
    Pero el miedo no desaparece ni desaparecerá con el fin del confinamiento y la reducción del número de casos. El virus sigue presente y la pregunta que todos nos hacemos es ¿y ahora qué?, ¿cómo y cuándo volveremos a la normalidad?, ¿a qué normalidad? ¿cuándo estará disponible la vacuna?
    Ante estos interrogantes queremos aportar, especialmente desde el ámbito sanitario, algunos aspectos que nos parecen importantes y que deben sumarse o solaparse a la reflexión que desde distintos ámbitos se viene haciendo.

    No es la primera pandemia de la humanidad ni será la última

    Desde que tenemos memoria histórica, tenemos descripciones de grandes epidemias. No pretendemos recorrer toda la historia de las epidemias, ni siquiera hacer una somera mención más o menos exhaustiva de las mismas. Pero no nos resistimos a tratar de mostrar cómo los cambios de época, de formas de vida colectiva, traen consigo nuevas formas de relaciones entre los hombres, y de los hombres con la naturaleza, que generan nuevos tipos de contactos y reacciones que hasta ese momento resultaban del todo desconocidas.
    En la Edad Antigua ya tenemos constancia documental de la llamada “Peste de los Antoninos” de tiempos de Marco Aurelio, que se extendió por todo el mundo entonces conocido. Al parecer fue trasmitida por el movimiento, desde oriente, de las tropas en el Imperio Romano. Estimaciones históricas dicen que mató alrededor de una cuarta parte de los habitantes del orbe, al encontrar una población sin inmunidad previa frente a ella. Galeno la compara con la “Peste Ateniense” anterior a ésta.
    En el Medievo contamos con las descripciones que la literatura de la época hace de la llamada “Peste Negra”. Peste habitualmente bubónica pero que saltó a una forma neumónica. Se extendió de forma incontrolada al adquirir una trasmisión respiratoria. La yersinia, que es su patógeno, circulaba sin necesidad de rata, ni de pulga. Las ciudades medievales quedaron desiertas y abandonadas. La Peste, en su forma epidémica, desapareció sin tratamiento, y sin que siquiera se lograra entender, en ese momento, la razón de su comportamiento epidémico.
    En la época de los grandes viajes a ultramar, no podemos dejar de recordar las muertes por escorbuto que -aunque no sea de naturaleza infecciosa y trasmisible- originó grandes desastres en armadas y expediciones. Gracias a algunas mejoras técnicas fue posible aumentar drásticamente los días embarcados. Sin embargo, el desconocimiento de la importancia de la vitamina C en la dieta, tuvo efectos más devastadores que las tormentas marinas, e incluso, a veces, que los cañones enemigos en las batallas navales.
    La relación con el nuevo mundo desde el siglo XVI no estuvo exenta de una alta mortalidad al intercambiar, en ambas direcciones, gérmenes desconocidos en la otra latitud. Mencionar, en dirección hacia Europa, los tremendos brotes de fiebre amarilla que se produjeron en las ciudades portuarias de Sevilla o Málaga a la llegada de buques que traían enfermos y mosquitos de América. Estos brotes, si bien eran auto limitados en tiempo y espacio, provocaron una altísima mortalidad en dichas ciudades. En la dirección que va de Europa hacia América, y aunque los estudios no son del todo concluyentes por falta de documentación, son también bastantes conocidas las enfermedades que se atribuyeron a los conquistadores en los territorios conquistados. Entre ellas, la influenza, el sarampión y la viruela se cuentan entre las más mortíferas.
    Podemos continuar con los estragos de las epidemias de cólera en la Inglaterra del siglo XIX, la Inglaterra de la revolución industrial. Pero no sólo el cólera, porque el hacinamiento, el hambre y la absoluta falta de higiene de los barrios obreros, propició igualmente el azote de las epidemias de tuberculosis. Esta llegó a hacerse endémica y mantuvo largo tiempo una escandalosa mortalidad en niños, jóvenes y ancianos, allí donde la revolución industrial se expandía.
    Durante las guerras mundiales en la primera mitad del siglo XX, el tifus exantemático de las trincheras llegó a ser un factor determinante en la capacidad militar de los ejércitos. Y, a lo largo de la actual pandemia, no se ha dejado de hacer referencia a las grandes epidemias de gripe española y asiática de ambas guerras y posguerras (1918 y 1956)
    En el pasado más reciente hemos convivido con grandes epidemias de cólera, paludismo, tuberculosis, ya endémicas en muchas zonas del planeta… y más recientemente SIDA, Ébola, Zika o coronavirus (SARS o MERS). En todas se ha sembrado de muertes nuestro mundo actual.
    El problema es que, ya en nuestro siglo, y en la misma medida en que se agigantaba la brecha entre el Norte enriquecido y el Sur empobrecido, estas epidemias han pasado a ser para nosotros, los enriquecidos, anecdóticas mientras no nos afectaran demasiado o afectaran a capas de población marginal. Esa es la verdad.

    Preferimos seguir culpando a un virus

    Esta pandemia tiene dimensión planetaria y está causada por un “nuevo” virus. La novedad del virus es relativa porque llega precedido de importantes brotes epidémicos. No tanto por su extensión sino por su agresividad y alta letalidad, el SARS y el MERS, eran también conocidos coronavirus de trasmisión respiratoria.
    Desde el descubrimiento de los gérmenes, la época de la microbiología ha cambiado nuestra visión de las epidemias. Lo cierto es que su presencia siempre ha estado ligada a condiciones de vida adversas: el cólera se asocia a la falta de saneamiento básico y agua potable desde el siglo XIX; la tuberculosis se extiende por el hacinamiento y el hambre; la malaria tiene mucho que ver con condiciones insalubres en el medio, con charcas, animales, donde abundan los mosquitos… con todo un ecosistema letal.
    Sin embargo, en vez de afrontar las formas de vida- los ecosistemas sociales- que hacen posible las epidemias como fenómeno colectivo, el germen absorbió todo el protagonismo. Cuando afrontamos el combate contra el germen en el nivel individual se puede ser eficaz, pero eso no resuelve el problema colectivo común. Para muestra de lo dicho, la multiresistencia del bacilo de Koch, a cuya manifestación en el organismo llamamos tuberculosis. Llevamos más de un siglo sin lograr dominar la enfermedad, a pesar de disponer de medicamentos adecuados que en poco tiempo se transforman en ineficaces. Si permanecen las condiciones para la tuberculosis, el bacilo de Koch sigue provocándola a pesar de tratamientos que inicialmente puedan ser adecuados.
    En esta ocasión no habíamos percibido la insalubridad de nuestras formas de vida, masificadoras, individualistas pero iguales para todos, y además fatales para la trasmisión respiratoria. Pero lo peor es que tampoco nos habíamos apercibido de la nocividad de un mercado global que funciona con el motor del lucro y el poder y que, entre otros problemas, nos hace tan dependientes. El mundo entero ha estado desabastecido de productos indispensables (mascarillas, EPIs, hisopos…) porque el país productor interrumpió su distribución.
    Debemos tomar conciencia del círculo autodestructivo en el que nos movemos. Este mercado capitalista ya de por sí genera millones de víctimas. La globalización y el neocapitalismo financiero ya venían generando mucha enfermedad y muerte en el mundo.  Pero, además, el tipo de relaciones que establece entre las personas y de éstas con la naturaleza, provoca respuestas nocivas para la salud, que se convierten en epidemias, que también son letales para la población más vulnerable. Si la propuesta de salida de la epidemia se centra sólo en “el virus”, en esta concepción individualista y masificadora en la que nos venimos moviendo, nos espera una crisis sobrevenida que volverá a generar más muertes que el propio virus. Se trata de un círculo vicioso que, de no romperse, nos mantiene en una lógica autodestructiva.
    Puede que, una vez más, prefiramos seguir culpando a un virus (al que no podemos pedir responsabilidad, ni condenar) antes que investigar las causas que generaron las condiciones propicias para la expansión de la pandemia. Nos seguimos devanando los sesos indagando en lo circunstancial, mientras que miramos hacia otro lado ante las causas. Y sin reflexionar con la máxima seriedad sobre las causas, no atajaremos el problema.
    Pero ahora nos vamos a centrar en la respuesta del sistema sanitario. Este sistema ha adolecido de al menos dos daños que lo han penetrado en las últimas décadas: la debilidad del propio sistema de salud y la mentalidad tecnocrática. Si queremos aprender de los errores no basta con mirar la gestión concreta de estos últimos meses, hemos de dirigir la mirada a las últimas décadas.

    Debilidad del sistema de salud y mentalidad tecnocrática. Degradación de la atención primaria.

    La debilidad de nuestro sistema de salud procede, en primer lugar, de la descapitalización creciente que viene sufriendo desde la crisis económica del 2008 y los posteriores planes de ajuste. Esto tiene que ver con los criterios de austeridad (¿o habría que llamarlos de mezquindad?) impuestos a bienes comunes necesarios para garantizar derechos humanos y constitucionales, como el derecho a la vida y a la protección de la salud.
    El grave daño al Bien Común que la descapitalización del sistema sanitario público supone viene avalado por el Acuerdo General sobre el Comercio de Servicios que entró en vigor en 1995. Partiendo de este Acuerdo,  la Organización Mundial de Comercio diseña la ruta hacia la privatización de servicios básicos y comunitarios como el agua, la sanidad, la educación, los servicios sociales… Ya es oficial: todo puede ser negocio, también el dolor y la enfermedad. Todo gobierno que quiera mantenerse en el poder ha de seguir la ruta diseñada por los organismos supranacionales con los que hay compromiso en el mundo globalizado. El crecimiento de la red privada a su amparo ha permitido el paulatino deterioro del Sistema Nacional de Salud creado con la Ley General de Sanidad de 1986.
    Lo más dañado en este devenir ha sido la red de Atención Primaria y la Epidemiología. Y esto es así porque la mentalidad tecnocrática de nuestra cultura ha dirigido la mirada hacia los hospitales (y ahora hacia las UCIs) intentando guardar, en lo posible, su integridad dentro del marco de austeridad.
    En los últimos decenios se ha ido desplazando paulatinamente de la Atención Primaria el concepto de salud y de servicios sanitarios que contemplaban como sujeto de atención a la comunidad. Si se reconoció la Medicina Familiar y Comunitaria era porque a las personas se las consideraba con su dimensión relacional e institucional. ¿Qué ha quedado de esto? Nada. Hemos caminado, en aras del negocio, hacia un retorno a la medicina de corte biologicista que se ocupa solo de un cuerpo o de una parte del mismo. En el contexto actual, la Atención Primaria pasa a ser un simple primer eslabón de la cadena asistencial que tiene el objetivo de filtrar los problemas para evitar la sobrecarga de los hospitales, ya que estos siguen siendo la verdadera estrella. Así la Atención Primaria pierde importancia y puede sufrir todo tipo de recortes.
    En la declaración publicada tras la Conferencia de Alma Ata en 1978, la Conferencia sobre Atención Primaria de Salud, convocada por la OMS para establecer la estrategia que nos llevara al objetivo de “Salud para Todos”, se refleja con claridad el convencimiento de que la salud es un objetivo social prioritario en todo el mundo, y que el desarrollo económico y social es esencial para su consecución. Superar las inaceptables desigualdades en salud, sigue diciendo la declaración, requiere de la acción de muchos sectores y de un sistema nacional de salud integrado y en coordinación con los mismos. Finalmente acaba declarando que para ello se requiere una utilización mejor de los recursos mundiales, gran parte de los cuales se gastan en conflictos militares.
    En lo específicamente médico, la declaración de Alma Ata dice que “la Atención Primaria de Salud (APS) se basa en la práctica, en las pruebas científicas y en la metodología y la tecnología socialmente aceptables, accesible universalmente a través de la participación social, y a un costo que la comunidad y el país puedan soportar”. 
    La filosofía en que se sustenta la APS para responder a los problemas de salud de la sociedad, se basa en el principio de subsidiaridad, es decir, en una base social que asume su protagonismo. Son también pilares fundamentales de la Atención Primaria, marcada por una alta complejidad, la intersectorialidad en los conocimientos y acciones, y la solidaridad por la amplia interrelación en la vida de los pueblos. Por eso, ahora que vemos la necesidad de reforzar y reinvertir en los sistemas sanitarios, es muy necesario retomar la experiencia de Atención Primaria que aquí se sostiene. Esta ha sido no sólo poco evaluada sino interrumpida por el interés del lucro como único valor a considerar, también en lo que concierne a la salud de los pueblos.
    Ante el dilema del alto coste de la continua innovación tecnológica aplicada a la atención de salud, fue la propuesta de la Atención Primaria de Salud Selectiva la que de forma casi imperceptible resituó el tema de la salud nuevamente en el marco biologicista y tecnocrático, apto para una respuesta individual y privada. El argumento a favor de esta opción defendía que solo se proporcionará la tecnología cuyo costo el país, o grupo social, pueda soportar. No se contempló la reducción de costos tecnológicos porque el beneficio económico ha de ser, una vez más, el único elemento intocable. De esta manera, el sujeto de la atención dejó de ser imperceptiblemente la comunidad y pasó a serlo “el cuerpo individual” con sus órganos y aparatos. Es lo que tenemos.

    Responder a un problema comunitario con lógica de servicios médicos individuales

    Entonces ¿no son necesarios los hospitales y las UCIs? En la respuesta a esta pandemia no hemos hablado de otra cosa y hemos reorganizado toda la vida social con el único objetivo de que estos servicios esenciales no se colapsaran.
    Evidentemente no es discutible su imprescindible aportación al restablecimiento de la salud cuando esta se pierde, y más aún cuando se pierde tanto que el paciente queda al borde de la muerte. Pero deben estar al servicio de la Atención Primaria y no al revés. Tenemos, somos, cuerpo. Y cuando la adversidad llega a dañar nuestra biología, es la medicina, con todo el conocimiento de esta, la que ha de intervenir; la muy especializada cuando el daño es muy grave. Pero es muy amplio el campo de actuación en materia de la salud previo a ese daño grave.
    En España tenemos un Servicio Nacional de Salud, no un Seguro de Servicios Médicos como en EEUU. Aunque son muchas las compañías multinacionales que en los últimos años han aparecido en la escena sanitaria, también en España, al amparo del ya mencionado AGCS (Acuerdo General de Comercio y Servicios)
    Y ¿cuál es la diferencia? El seguro cubre determinadas prestaciones, las que se hayan contratado, a sujetos que hayan suscrito una póliza, cuyo precio dependerá del nivel de riesgo de la persona que lo suscribe. No hay más campo de actuación que el cuerpo de su cliente. El Servicio Nacional de Salud en cambio busca, o debería buscar, el Bien Común, en materia de salud, de la población sobre la que tiene competencia. Su actuación ha de velar por la seguridad de los alimentos, las garantías del agua y el aire, la disponibilidad, seguridad y vigilancia farmacológica, la vigilancia epidemiológica, por nombrar sólo las más clásicas, además de la red de servicios médicos. Su coste se contempla en los Presupuestos Generales del Estado y es una forma de redistribución de la riqueza, liberado de la presión de la rentabilidad económica, de modo que no debieran contribuir más los sectores más frágiles y enfermos de la población.
    ¿Qué nos ha pasado con la COVID-19? Que hemos tenido que responder a un problema comunitario con lógica exclusiva de servicio médico. Esto resulta, por principio, imposible. Veamos algunos números. Si se hubiera contagiado un 15% de la población, estaríamos hablando de unos 7 millones de personas contagiadas. Si de ellas el 20% hubieran necesitado hospitalización, necesitaríamos 1,4 millones de camas hospitalarias. Y, si de ellos, el 5% requiriesen UCI, se necesitarían 70 mil camas de UCI. Si los contagios se dan en poco tiempo y el tratamiento necesitara entre 4 y 6 semanas de duración, podríamos encontrarnos con una demanda, si no tan elevadas, sí a la mitad de estos números como mínimo. Si este u otro nuevo germen que circulara llegara a producir mayor morbilidad, afectando a un mayor porcentaje de la población, estos números quedarían pequeños. Es obvio que así no podemos responder.
    Todavía nos queda otra esperanza basada en la tecnología: la vacuna. Por supuesto será una buena respuesta, sobre todo para los patrocinadores…, pero para la población va a depender de la capacidad de mutación del germen, de las características de la resistencia inmunitaria que genera y de las características de la vacuna que logre vencer primero las dificultades hasta llegar al mercado.

    Sí, se puede actuar con otra lógica: la lógica comunitaria

    Ya en el siglo XIX se logró controlar importantes epidemias de cólera, por ejemplo, en Londres, sin ni siquiera conocer la existencia de los gérmenes y su posibilidad de producir enfermedades. Y esta capacidad sigue existiendo. La Epidemiología es una herramienta clave para entender, y por tanto controlar y prevenir, la conducta de la enfermedad en la comunidad y para detectar sus causas en las características concretas de las formas de vida de los pueblos. Es un elemento esencial de un Sistema Nacional de Salud, sin la cual este no puede tener éxito. Detener la circulación del virus parando el mundo, es matar moscas a cañonazos.
    En 1977, en cuanto existió una cartera de Sanidad en el primer Gobierno democrático de España, una de las primeras medidas que tomó fue recuperar las plazas de Epidemiólogos. Desde la II República existía una red de Vigilancia Epidemiológica en España que había desaparecido en los 40 años de dictadura. En 1978 se había recuperado la red anteriormente existente y la Ley General de Sanidad de 1986 puso las bases para hacerla capilar en el Servicio Nacional de Salud. Sin embargo, en las últimas décadas esa capilaridad fue decayendo ante los recortes económicos.
    En realidad, su cometido principal es tener actualizado el mapa de riesgos de la población encomendada. Era la encargada de detectar dónde la vida social (en sentido amplio) se ve resquebrajada y es esperable que deje crecer la enfermedad. Y también es la responsable de localizar las fortalezas comunitarias con las que se puede contar para superar dichos riesgos. La vigilancia permanente que ha de llevar a cabo debe ser tanto local, como nacional e internacional. Pero no hay inversión, ni voluntad política para afrontar solidariamente los problemas sociales. Parece que se prefiere ignorarlos, no investigarlos. Así, el peso de la Epidemiología se desplazó hacia donde sí era posible la investigación, hacia la Epidemiología Clínica, basada en casos clínicos, no en la población.
    Son muchas las multinacionales farmacéuticas y tecnológicas que financian multitud de Ensayos Clínicos de alto nivel para validar nuevos tratamientos y técnicas diagnósticas, que puedan sostener la medicina basada en la evidencia. Pero la Epidemiología y su potencial en investigación ha quedado muy reducida en el marco del Sistema Nacional de Salud, prácticamente tres cometidos la ocupan. El primero, la organización y gestión de servicios médicos; el segundo, disponer de una medicina basada en la evidencia que haga eficiente los servicios médicos; y, en tercer lugar, a la prevención de enfermedades sostenida sobre el control médico de los factores de riesgo de enfermedades, y las vacunas.
    La consecuencia es lógica: tenderán a poder beneficiarse de esta medicina la población con recursos económicos, la que pueda recurrir a la medicina privatizada. Pero ya no podemos olvidar que, ante los problemas poblacionales, comunitarios, no individuales, parece que nos esperan experiencias como las de la COVID-19.
    La esperanza sanitaria ante la pandemia se inscribe en volver a pensar en salud para todos, y no sólo en enfermedades ya instauradas. En la búsqueda de otro modelo de sociedad que no promueva las desigualdades sociales, buscando soluciones sólo para ricos. Porque parece demostrado que los problemas poblacionales, cuando estallan, además también afectan a los ricos.
    En otra ocasión hablaremos de Epidemiología. De la Vigilancia Epidemiológica que faltó en los preámbulos de la COVID-19.

    Fdo. Ana Solano y Víctor Navarro
    Médicos de Salud Pública
    https://solidaridad.net/por-que-se-ha-desbordado-nuestro-sistema-de-salud-con-esta-pandemia/