Questa è una storia di bombe prodotte in Italia, bombe spacciate con l’inganno del diritto al lavoro.
Questa è una storia esplosiva della peggiore politica, quella che pur
di fare affari non guarda in faccia nessuno, nemmeno le leggi.
Questa infine è la storia di una banca che mette in campo il proprio posizionamento sul concetto di “gestione della casa”, che poi è il vero significato della parola economia.
Questa infine è la storia di una banca che mette in campo il proprio posizionamento sul concetto di “gestione della casa”, che poi è il vero significato della parola economia.
Cosa sta succedendo in Yemen
C’è un conflitto implacabile che da quattro anni
sconquassa lo Yemen. Una guerra rimasta perlopiù nell’ombra degli
interessi geopolitici che l’hanno prodotta e giustificata, salvo sortire
poi dal lungo silenzio grazie alla vicenda di Jamal Khashoggi,
il giornalista saudita fatto a pezzi il 2 ottobre 2018 nella sede del
consolato del suo paese a Istanbul, dove si era recato per formalizzare
un procedura di divorzio. Il corpo smembrato del noto editorialista del
Washington Post è metafora e specchio dello smembramento sociale ed
economico dello Yemen sotto le bombe: vite parallele di uomini e paesi
che non si possono ignorare.
Quei resti umani del saudita, ancora introvabili, rimandano agli
squarci dei bombardamenti e alle viscere rivoltate dell’intera società
yemenita sotto scacco per via del colera, un’epidemia come non se ne vedevano da secoli. Sulla soglia di una carestia senza precedenti - le proiezioni dell’ONU parlano di malnutrizione acuta, la versione più estrema della fame, per 400.000 bambini.
Una popolazione allo stremo, insomma, ancora largamente inaccessibile,
se non per le poche coraggiose presenze di uomini e donne alle prese
con la crisi umanitaria. La più grave, ci rammentano i rapporti delle
agenzie internazionali, e le narrazioni giornalistiche di chi ha deciso
di non voltare lo sguardo.
Poi c’è la corona regnante in Arabia Saudita, regista e mano del duplice scempio. C’è lo strano caso di Mohammed bin Salman (MBS),
rampollo e promessa della modernizzazione della monarchia, che ha
saputo gabbare la comunità internazionale con poche abili mosse di
sostanziosi affari militari e roboanti operazioni di maquillage sui
diritti (le donne saudite al volante). Con il piglio scanzonato che la
gioventù impone, MBS ha ritenuto ammissibile nel 2015 porsi alla testa
di una coalizione militare di paesi sunniti (Marocco, Egitto, Sudan,
Giordania, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain e Qatar) contro le forze
antigovernative shiite degli Houti in Yemen, per attizzare di fatto un
nuovo conflitto internazionale contro l’Iran. Con altrettanto piglio ha
poi ritenuto possibile orchestrare, con un team di 15 collaboratori –
tanti ne ha contati la CIA – un’imboscata per azzittire definitivamente
la voce non proprio accondiscendente del giornalista Khashoggi. Il
principe ha esagerato, mettendo la comunità internazionale in
imbarazzato subbuglio. Ma non demorde: il processo appena avviato in
Arabia Saudita sulla morte di Khashoggi, a porte chiuse e senza citare i
nomi dei sospettati, è un “un travestimento della giustizia”, commenta a
ragione il Washington Post. Gli intrecci economici che legano il mondo
intero all’Arabia Saudita, in barba alle ben note violazioni dei diritti
umani (delle donne e non solo), sono di immensa portata e nessuno vuole
veramente rompere con Riyadh. Le acrobazie narrative per scagionare il
principe saudita non sono solo quelle di Donald Trump, anche se il
presidente USA è sempre più alle strette: lo scorso dicembre, il Senato
americano uscente ha approvato all’unanimità una risoluzione che punta
alla responsabilità di MBS e invoca un’indagine urgente
dell’amministrazione, per accertarla.
E l’Italia?
Di mezzo c’è anche l’Italia. Partner indiscusso dei sauditi. Alleato senza inquietudini. Le nostre relazioni spaziano dalle armi prodotte in Sardegna su procura di aziende tedesche, agli accordiper disputare là finali di calcio made in Italy, come è il caso della Supercoppa Juventus-Milan,
trasmessa in diretta il 16 gennaio da Rai 1: “una partita che si gioca
per un solo dio, il dio denaro, alla faccia dei molti giornalisti
scrittori, pacifisti e blogger che marciscono a centinaia nelle carceri
saudite”, ha chiosato il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Giuseppe Giulietti.
La strategia italiana illustrata sul sito del Consolato del resto non
lascia equivoci: “L'Italia è uno dei migliori partner commerciali
dell'Arabia Saudita in Europa, al primo posto negli ultimi anni. Nel
2014, le esportazioni italiane verso il Regno hanno raggiunto più di 18
miliardi di Reali Sauditi ed includono principalmente macchinari
industriali, prodotti raffinati e apparecchiature elettriche. Il nostro
obiettivo comune è quello di raggiungere cifre ancora più grandi ed una
maggiore diversificazione”.
In Sardegna c’è chi dice no
Chi mette alle strette il mondo politico italiano è un piccolo inflessibile nucleo di uomini e donne della Sardegna, il Comitato per la Riconversione della RWM Italia
(dal nome dell’azienda che produce a Domusnovas le bombe esportate in
Arabia Saudita e lanciate in Yemen) di cui fa parte anche Fondazione Finanza Etica,
che da oltre due anni non cede di un passo, incalza battendo il tempo e
creando un’onda di mobilitazione che nessuno può fermare, con risultati
importanti. Un’esperienza politica che dal Sulcis Iglesiente ha lambito
le pagine della stampa internazionale, e comincia finalmente a
intaccare l’indifferenza del governo, se dobbiamo prendere per buone le
parole pronunciate da Giuseppe Conte alla conferenza stampa di fine
anno: “Non siamo favorevoli alla vendita di queste armi e quindi ora si
tratta solo di formalizzare questa posizione e agire di conseguenza”.
Infine c’è una legge. La legge 185/90 che regolamenta in Italia il commercio dei sistemi d’arma secondo
principi che hanno fatto scuola nel mondo, e che ora qualche
parlamentare vorrebbe modificare nel corso della nuova legislatura,
paradossalmente, per “migliorarne l’attuazione”. Una strada scellerata e
inutile, se si vuole mettere mano alla crisi dello Yemen. Quella norma è
un bastione che ha permesso alla società civile di impugnare le scelte
dei molti governi incuranti delle clausole che impediscono all’Italia di
esportare armi a chi viola i diritti umani ed è coinvolto in conflitti.
Lo Yemen non può diventare un pretesto. La legge 185/90 va piuttosto
attuata seriamente, casomai intervenendo sui decreti attuativi, in modo
da restringere le maglie e ripristinare la trasparenza che abbiamo
conosciuto ai tempi della Prima Repubblica. Su questo Banca Etica – la cui storia ed esistenza è molto legata alla legge 185/90 – non ha dubbi.
Se è servita la morte di Jamal Khashoggi perché il mondo squarciasse
il velo del cinismo saudita fino a puntare lo sguardo sulla guerra in
Yemen, l’Italia deve fare la sua parte e sospendere immediatamente le esportazioni all’Arabia Saudita,
ripristinando subito la più rigorosa applicazione della legge in
materia, anche laddove prevede la attivazione e il finanziamento di un
fondo per la riconversione dell’industria militare. E’ giunto il tempo
di una discussione pubblica seria sull’impatto del complesso
militare-industriale italiano sulla instabilità geopolitica (in
particolare in Medio Oriente) e nella definizione della politica estera e
di sicurezza dell’Italia.
Per non parlare solo di immigrazione…
Per non parlare solo di immigrazione…
di Nicoletta Dentico, consigliera di amministrazione di Banca Etica e vicepresidente della Fondazione Finanza Etica
https://www.bancaetica.it/blog/aspettando-supercoppa-gli-interessi-italiani-arabia-saudita-tra-armi-calcio-diritti-umani
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